Mio figlio non parla. Gli domando le cose ma non mi risponde. Quando vedo che qualcosa non va gli faccio mille domande, ma lui dice che sta bene. Non aggiunge altro.
Discorsi di questo tipo sono i più frequenti in uno studio di psicoterapia dell’età evolutiva. Con poche variazioni, questo tema rappresenta una costante.
Perché molti bambini, quando hanno un problema, non si aprono con i loro genitori?
La difficoltà più comune che si osserva nel rapporto tra genitori e figli, consiste in un cattivo utilizzo delle capacità metacognitive. La metacognizione è la capacità di attribuire a sé e agli altri, stati mentali, intenzioni, emozioni e desideri e prevede la capacità di ragionare attivamente su questi elementi per trovare soluzioni ai problemi. La metacognizione è una capacità umana fondamentale che opera spesso (quando opera) al di fuori della coscienza. Tutti, in qualche misura, abbiamo capacità metacognitive; ma a causa di diversi fattori, alcuni sono più bravi di altri.
Facciamo un esempio. Di fronte ad un bambino che torna da scuola triste o turbato…
- un genitore con una scarsa capacità metacognitiva potrebbe pensare: “oggi mi sembra triste. E’ così lunatico”.
- mentre un genitore con una buona capacità di monitoraggio della mente del figlio potrebbe pensare: “so che oggi aveva un’interrogazione…lui è timido e si sarà sentito in imbarazzo di fronte ad altri. Magari ha fatto una figuraccia e si sarà vergognato”.
Pensieri così diversi porteranno il genitore a comportarsi in maniera differente.
Innumerevoli ricerche hanno trovato che la sofferenza psicologica, le difficoltà di relazione, la psicopatologia tout court, è fortemente correlata a deficit metacognitivi di diverso ordine.
I bambini possono andare incontro a tutta una serie di difficoltà. Uno dei contesti in grado di mettere particolarmente alla prova un bambino è quello scolastico. Avere a che fare con gli insegnanti, con i compagni e le loro diversità, doversi dimostrare abbastanza bravi nelle materie (almeno bravi quanto gli altri), rappresentano delle vere e proprie sfide. Quando un bambino incontra sul proprio cammino un ostacolo che fatica a superare, generalmente i genitori si accorgono immediatamente che qualcosa non va.
Di fronte a un bambino che appare turbato, taciturno, abbattuto, che magari non mangia, non dorme o protesta ed è più irritabile del solito, il genitore giustamente preoccupato, cerca di capire cosa stia succedendo e ben presto risale alla fonte del problema. I bambini non hanno infatti particolari reticenze ad aprirsi. Inoltre non possiedono la capacità di nascondere i propri stati mentali e dissimularli.
Una fase critica nella relazione genitore-bambino è quella che prevede che ad un certo punto il bambino “confessi”, si apra, chiedendo attivamente conforto e sostegno al genitore. Questo avvenimento, pur essendo del tutto naturale, può rappresentare l’inizio di un interscambio genitore-figlio insoddisfacente. Quì, la responsabilità del genitore è massima: infatti i bambini hanno più bisogno degli adulti quando sono in difficoltà e non quando le cose vanno bene. E’ in questa fase che il genitore deve dimostrare ottime capacità metacognitive. Una di queste abilità, prende il nome di decentramento. Non è un concetto nuovo: prevede il sapersi mettere nei panni dell’altro per vedere le cose da un punto di vista differente.
Il decentramento, operazione apparentemente semplice, implica il dover attribuire all’altro -in questo caso al bambino- uno stato della mente, a prescindere dalla propria prospettiva e dal proprio coinvolgimento nella relazione.
Semplice a dirsi ma non a farsi! Quello che troppo spesso succede quando i bambini hanno un problema di relazione, quando, per dirne una, non riescono ad integrarsi in classe perché vengono presi in giro dai compagni, è che essi ricevono dagli adulti dei pessimi consigli. Risposte perfette. Risposte troppo razionali, insensibili e poco attente allo stato emotivo del bambino; dire ad un bambino “rispondigli a tono, prendili in giro anche tu”, oppure “dillo alla maestra”, oppure “non ti preoccupare tesoro, fai finta di niente”, oppure precipitarsi a scuola a risolvere la situazione, significa mettergli in mano delle soluzioni pronte che non lo aiutano; perché si tratta di quello che faremmo noi, con le nostre capacità adulte -ben diverse da quelle di un bambino, che sarà presumibilmente in difficoltà nel fronteggiare sensazioni di rabbia e paura soverchiante, piuttosto che nel cercare le parole giuste. E il problema rimane!
Un errore comune di molti genitori è cercare di risolvere tutti i problemi del figlio…perché questo non soffra mai!
Quando situazioni di questo tipo si ripetono e durano mesi o anni, succedono due cose:
1. Il bambino inizia a manifestare chiari sintomi di sofferenza: ansia, depressione, irritabilità. Può rifiutarsi di andare a scuola, diventare aggressivo con i fratelli e oppositivo con i genitori, può ammalarsi più spesso e soffrire a causa di sintomi somatici (ad es. cefalea, mal di pancia). Può sviluppare disturbi dell’alimentazione, del sonno, dell’evacuazione ecc.
Un problema aggiuntivo spesso riguarda la bassa autostima che deriva dal sentirsi inadeguato (“se non riesco a fare come mi dice papà è perché ho qualcosa che non va. Non sono abbastanza capace”).
2. Il bambino smette di parlare dei suoi problemi. Dal momento che ha imparato che rivolgersi agli adulti per cercare comprensione è inutile, naturalmente il bambino smette di comunicare con noi, adottando strategie più evitanti e solitarie per gestire i propri stati mentali dolorosi.
Quando la situazione diventa insostenibile, a casa come a scuola, i genitori decidono di chiedere aiuto. La soluzione, neanche a dirlo, consiste innanzitutto in un potenziamento attivo delle capacità metacognitive genitoriali.